Youssef col suo zainetto in spalla segue un sentiero invisibile, fra i sassi già scaldati dal primo sole del mattino. L’orizzonte è sgombro di case, strade, macchine; solo rocce, dune di sabbia, la sagoma di qualche dromedario che pascola fra rare acacie spinose e sfrondate e, sullo sfondo, nella trasparenza di un’aria rarefatta e secca, che sfuma, distorce e rende più dolci i tratti, la linea piana delle montagne, le cui vette sono svanite da secoli, consumate dal sole cocente, dal vento e dalla sabbia.
Youssef va a scuola, come molti bambini del resto del mondo, ma la sua scuola è una cosa rara: è giovane, nata solo tre anni prima, una tenda nel mezzo di una zona riarsa nell’estremo occidentale del deserto del Sahara, nei pressi del pozzo di Boujab. Qui un tempo, non moltissimo tempo fa, le acque del fiume Draa, dopo aver reso fertili i palmeti della valle, si offrivano ancora e si allargavano a formare un lago poco profondo, l’Iriki.
I cambiamenti climatici e l’avanzare del deserto hanno poco a poco evaporato l’ampio bacino che rendeva questo luogo un piccolo Eden per i nomadi berberi e le loro greggi. La mano dell’uomo, la diga realizzata a Ouarzazate, duecento chilometri a monte, l’hanno completamente prosciugato: quel che resta è un’immensa distesa piatta, liscia come la tavola di un biliardo, e secca, desolatamente asciutta.
La scuola è come l’ombelico di un’area vasta decine di chilometri che raccoglie ogni mattina poco più di una ventina di bambini e bambine, insieme ai fratelli e le sorelle più grandi. Li vedi spuntare dal nulla, ti chiedi dove mai siano le loro case, ma i nostri occhi non sono abituati a cogliere le sottili sfumature di questo paesaggio. Le loro case sono fatte della stessa materia che ricopre questa terra: sassi e sterpaglia, e le loro famiglie vivono in piccoli nuclei, lontane le une dalle altre, a causa del necessario spazio di autonomia delle loro greggi.
Ma qui alla scuola i ragazzi s’incontrano, sotto la tradizionale tenda berbera fatta di teli di lana di dromedario, e studiano, imparano a leggere e a scrivere, soddisfano la loro sete di sapere, di conoscere quel che c’è oltre la linea di quell’orizzonte che non hanno mai varcato. Alcuni si fermano qui per cinque giorni alla settimana perché è un tragitto troppo lungo da compiere quotidianamente quello che li riporta a casa. Una donna prepara loro da mangiare e così, oltre il miracolo della scuola, la prima mai realizzata in queste lande, ecco un accenno di “college”, proprio qui fra le rocce, la sabbia e un cielo di un colore così intenso che vorrebbe un nome tutto per sé.
A meno di dieci metri sotto il suolo si trova un altro miracolo: l’acqua, in un pozzo nuovo, ben costruito, con il muretto di protezione, l’abbeveratoio per gli animali, l’arco di cemento con la carrucola per tirare su più facilmente il prezioso bene che ristora corpi che non sudano in questo clima secco, ma evaporano a causa degli oltre sessanta gradi al sole.
Youssef, Lhassen, Arkeia, Barka, M’Hammed, Aicha, Hassan, M’Lala. Khadouj, Hammi e gli altri mostrano tutta la loro fierezza quando leggono, disegnano, risolvono operazioni aritmetiche. Studiare per loro non è solo la speranza, ma anche la gioia di avere nuovi strumenti per capire la loro realtà, comunicare agli altri, avere più chiara l’immagine del loro futuro. Il loro primo desiderio non è quello di fuggire dal deserto e noi siamo impegnati a sostenerli per viverci meglio, aiutandoli a recuperare, innanzitutto, le tracce delle loro tradizioni disperse, la loro lingua proibita fino a pochi anni fa, la loro storia e la loro cultura, il loro orgoglio di essere Berberi, conoscitori del deserto, fieri superstiti nomadi di questa terra che ogni notte si ammanta del cielo più stellato che si sia mai visto.