LA NOSTRA STORIA, PICCOLA E INTENSA
SHARE è un’Associazione onlus (organismo non lucrativo di utilità sociale) costituita ufficialmente nel gennaio 2001 con il nome “Oki do Human Life Project”. Le attività di volontariato, però, erano cominciate alcuni anni prima come espressione di esperienze di servizio e di solidarietà di una rete di centri di studio.
Nel 1998, a seguito di un viaggio di studio nel Sahara marocchino, si decise di “ripagare” lo straordinario sostegno e la toccante ospitalità delle comunità locali, incontrate lungo il nostro faticoso cammino, con la costruzione di alcuni pozzi a beneficio di quelle popolazioni nomadi. Pochi anni dopo Share si occupò di sostenere una scuola per i bambini delle famiglie beduine, scuola che è tuttora aperta e sostenuta da Share. Attraverso quel primo progetto affermavamo come l’azione solidale non fosse un movimento portato dall’alto verso il basso ma, al contrario, partisse da un moto di riconoscimento del valore altrui, come quello che avevamo trovato e riconosciuto, specialmente nei momenti di difficoltà, in quella gente del deserto, nei loro saperi e nella loro gentilezza.
Il 1999 era l’anno della guerra nei Balcani. Benché non fossimo un’organizzazione nata per intervenire nelle grandi emergenze, sentimmo spontaneo andare in Albania e in Macedonia a sostegno dei rifugiati della guerra del Kosovo. Attraverso quattro missioni, sperimentammo come fosse possibile, trasformando emozione in azione, organizzare nell’arco di pochi mesi il trasporto di tonnellate di aiuti umanitari, raccolti in Italia grazie a una rete, improvvisata ma appassionata, e consegnarle direttamente ai profughi. Eravamo portatori di una goccia nell’oceano dei bisogni, ma incontravamo centinaia di storie, trovavamo così tanti sguardi di vicinanza, abbracci, scambi di speranza… Attraverso quell’esperienza così lontana e allo stesso tempo così vicina, capimmo come fosse importante “essere lì” per sentire e condividere.
Nel 2000 Share diede inizio a diverse attività in Cambogia e Myanmar. Si realizzarono numerosi progetti, alcuni dei quali ancora in corso e in via di ulteriore sviluppo, indirizzati alle popolazioni più povere delle aree rurali di questi paesi: pozzi, asili, scuole, sostegno allo studio, formazione, microcrediti. Perché proprio lì? Per puro caso, potremmo dire. L’azione solidale non richiede necessariamente una pianificazione a tavolino, anche perché rimanendo seduti dal tavolino “si rischia” di non rimanere connessi con la realtà delle cose. Per varie e diverse circostanze ci eravamo trovati a vedere e toccare quelle realtà di bisogno e decidemmo che fosse un motivo abbastanza solido per impegnarci in quei luoghi.
Sempre nel 2000, alcuni volontari di Share iniziavano a Roma un’esperienza per la scolarizzazione dei bambini dei campi Rom e di sostegno alle loro famiglie. Il progetto, che ha permesso di accogliere e accompagnare nel loro cammino decine e decine di bambini, ci ha visti coinvolti in prima persona per sette anni, in cui abbiamo imparato a scoprire, conoscere, rispettare consuetudini e approcci alla vita così diversi dal nostro. Grazie a quei bambini abbiamo capito che l’integrazione fra culture non può consistere nell’assoggettamento una dell’altra, ma è possibile solo nella creazione di spazi di mutuo interesse e di reciproco nutrimento.
Nel 2001 un’altra guerra veniva raccontata dai media e prendeva spazio nei nostri immaginari: quella in Afghanistan. Siamo prima andati a New York, per vedere le rovine delle Torri gemelle: era ancora possibile sentire l’odore di bruciato di quella tragedia; poi siamo andati in Afghanistan. A fatica siamo riusciti ad entrare nel paese e a prendere i primi contatti per avviare piccole azioni solidali, ma a seguito di azioni di guerra nella provincia Jalalabad, dove eravamo, abbiamo dovuto desistere. Per circa tre anni abbiamo allora sostenuto alcuni progetti di solidarietà in Pakistan: aiuti ai campi dei rifugiati di Peshawar, scolarizzazione per i bambini e le bambine delle famiglie nomadi nelle montagne delle provincie del Nord. Piccoli, di fronte a tragedie di così vasta portata, ci è sembrato che cercare con ostinazione una luce nel buio fosse un modo di servire la pace, anche nel mondo minuto di una singola azione.
Nel 2004, grazie all’offerta di competenze di alcuni volontari delle Scuole di Shiatsu per il Bene Comune, Share ha dato vita in Myanmar, in un istituto per ragazzi non udenti, alla prima esperienza di formazione di Shiatsu and natural healing. Abbiamo quindi inaugurato una nuova stagione di progetti, individuando nello scambio di saperi una chiave per rendere più fruttuosa l’esperienza solidale. Ispirati alla massima per cui “è meglio insegnare a pescare che regalare un pesce” (magari, se proprio si vuole, si può regalare la canna!) abbiamo visto come quei ragazzi, che hanno aperto oggi il primo centro di Shiatsu in tutto il Myanmar, abbiano anche trovato dentro di loro la forza, l’orgoglio, le capacità che prima di questa esperienza non sapevano di avere. La solidarietà, a volte, si manifesta nella forma di una scintilla…!
Share è arrivata in Rwanda nel 2005, undici anni dopo il genocidio che ha sconvolto quel piccolo paese nel cuore dell’Africa. L’occasione era stata data dalla partecipazione a un progetto che ci vedeva compartecipi insieme ad altri soggetti quali il Comune di Roma, l’Istituto Universitario di Scienze Motorie, la UISP e altri ancora. Mentre poco dopo tutti gli altri hanno lasciato il campo, Share ha invece mantenuto la sua presenza, dando avvio a molte attività, tuttora in corso, rivolte fra l’altro alla scolarizzazione dei bambini di un grande quartiere povero di Kigali, alla cura della salute, alla formazione di gruppi di lavoro cooperativo, al sostegno di una straordinaria associazione di giovani e all’apertura di un Centro dedicato a loro.
Dall’esperienza ruandese in poi e per tutte le esperienze in corso e ancora in atto, l’azione di Share si è orientata sempre con più convinzione alla promozione e la realizzazione di spazi e opportunità in cui la solidarietà rappresentasse non più un’opzione di altruismo ma un reciproco nutrimento dei soggetti coinvolti nelle relazioni che si andavano creando. Nella sua azione si è quindi andata sfumando sempre di più la differenza fra donatori e beneficiati, fino a unificarli nell’idea dell’azione incondizionata per il Bene comune.
L’osservazione e l’ascolto dello sviluppo naturale di tutte le realtà progettuali svolte ci hanno portato, poco a poco, a immaginare la realizzazione di luoghi che possano rappresentare un modello capace di assumere in sé lo sviluppo di una cultura della condivisione, la custodia di saperi preziosi, la possibilità di svilupparli in una prospettiva solidale; luoghi capaci di diffonderli attraverso attività che abbiano al centro i valori umani dell’armonia con se stessi, con gli altri, con l’ambiente. Abbiamo quindi cominciato a delineare questi luoghi non solo nella visione condivisa con i consociati dell’azione solidale, ma anche nella pianificazione di alcuni passi da realizzare nel quadro dei piani progettuali di questi ultimi anni. Abbiamo chiamato questi luoghi-obiettivi Centri per la Cultura del Bene comune (CCB).