Ripensare e riscrivere le parole nell’alfabeto della mondialità
contributo di ricerca su Cooperazione e ONG, di Alfredo D’Angelo (fondatore e direttore di SHARE) per l’Università del Bene Comune, Facoltà della Mondialità – Roma, 15/10/2008
Come viene presentata l’idea della cooperazione internazionale oggi e quali sono le critiche e la nuova identità della solidarietà internazionale.
Il destino nel nome
La ONG si chiama “SHARE – Human Life Project”. Nella scelta del nome abbiamo voluto privilegiare prima di tutto il messaggio di cui le sue azioni vogliono farsi portatrici (Share = condividere) e poi accennare una proiezione (Human Life Project) dove si possa immediatamente rintracciare il senso di concretezza degli obbiettivi (project) e le prospettive dell’agire di cui questi si vogliono far carico (human life, una vita degna di un essere umano). L’uso dell’Inglese rende il nome più compresibile in differenti paesi del mondo dove, d’altra parte, le associazioni “sorelle” vi accostano un messaggio simile, nella lingua propria.
Lo slogan che accompagna la presentazione dell’Associazione è “One world, one people, one life”: in natura non esistono frontiere né separazioni, ogni cosa esistente è profondamente legata e interconnessa a tutte le altre, ogni porzione di questo mondo è indispensabile alla sua totalità. Noi tutti abitiamo un unico pianeta, come un solo popolo condividiamo i suoi spazi e le sue risorse e la vita si rivela come un dono della natura, in ognuno e in ogni cosa. Le false dottrine, i settarismi, i conflitti, le guerre, nascono dall’ignoranza di questa vitale interdipendenza, di questa naturale vocazione umana verso una società solidale e conviviale. Abbiamo voluto ispirarci alla visione di un’essenziale unità organica del pianeta, delle genti e di tutte le cose viventi, per trarre forza e determinazione e dare uno spessore di totalità ad ogni nostra azione, anche la più piccola.
Sebbene il nome di una ONG e le parole che lo accompagnano possano sembrare dei meri attributi didascalici, pure portano in se stessi un messaggio, importante in quanto riflette il suo carattere e il suo scopo e a questi richiama continuamente i suoi membri, i suoi collaboratori nella elaborazione dei progetti e nelle modalità con cui questi debbono essere realizzati. Il nome di una ONG può certamente anche avere la funzione di esercitare attrazione su eventuali sostenitori: a maggior ragione occorre il massimo rigore morale nel perseguire lo scopo che quel nome richiama. Nei media dell’informazione nomi di fantasia accompagnano spesso operazioni di polizia, missioni militari, persino guerre (vi ricordate di “Desert Storm”?); nomi che, fra l’altro, hanno lo scopo di mitizzare e allo stesso tempo alienare dalla vera natura di quell’evento. Ma nelle esperienze di cooperazione abbiamo anche esempi che, all’opposto, hanno avuto la forza di diffondere una visione diversa e spesso nuova, accendendo con un nome, l’immaginario un di mondo possibile: il mondo “sans frontières”, quello delle “mani tese”, quello di un mercato che possa essere “equo e solidale”, e così via.
Sembrerà superfluo, ma siamo convinti che nella presentazione dell’idea della cooperazione e nella riscrittura del suo alfabeto occorra valorizzare tutte le forze capaci di operare una trasformazione: le parole e la visione a cui queste rimandano è importante, poiché crediamo nell’idea che non esista nulla che non sia prima stato sognato.
La scelta consapevole
L’acronimo ONG ha un range di comprensione decisamente ampio, comprendendo realtà molto diverse fra loro, ma queste brevi riflessioni si riferiscono a piccole realtà di cooperazione. Nella ONG “SHARE”, pur essendo presenti sia il fattore associativo che quello organizzativo, è il primo ad avere il primato sul secondo. SHARE, infatti, è prima di tutto un’associazione di persone che hanno uno scopo in comune e che condividono l’idea di realizzare progetti di solidarietà, convinti che l’offerta verso la società non debba essere considerata come una mera “opzione di bontà”, ma una delle condizioni indispensabili per costruire un percorso d’evoluzione della vita umana. La scelta personale di mettersi in moto verso questa direzione risponde prima di tutto a un impulso morale e a una convinzione logica della necessità della condivisione del Bene Comune. Questa scelta, ovviamente, non è alternativa a forme diverse di organizzazione né all’opzione politica e/o su larga scala, pensiamo piuttosto che ne debba costituirne il fondamento, l’anima, il faro interiore. Diceva Margaret Mead: “Non dubitare che un gruppo di cittadini impegnati e consapevoli possa cambiare il mondo: in effetti è solo così che è sempre andata”.
Gli scopi di una ONG, così come le modalità con cui questi vengono perseguiti, possono generare varie forme di partecipazione, più o meno dirette, più o meno saldamente legate al suo nucleo fondante, ma non per questo meno significative. Nell’analisi e nella definizione di un tale soggetto, quindi, occorre scattare una fotografia che abbia contorni vasti e ampiamente sfumati, che non registri solo la sua struttura organizzata (il suo scheletro), ma che includa anche tutto il campo di forze che muove e nel quale si muove, i suoi sotenitori e i suoi beneficiari diretti e indiretti, fino a quello in cui è possibile percepire una risonanza delle sue azioni di cambiamento.
Un’esperienza associativa, quando sia costituita sulla scelta consapevole e circoscritta a un determinato numero di persone, ha il vantaggio di poter affermare con maggiore forza e coerenza le sue caratteristiche fondanti: proprio per questo, però, deve seguire l’imperativo di mettersi in rete, se non vuole correre il rischio di diventare autoreferente e rimanere in una nicchia dalla quale non sia possibile emettere alcuna vibrazione di risonanza e reciproca fecondazione di idee ed esperienze.
Un rete di piccole-medie associazioni ci sembra la forma organizzata più efficace in questa fase di evoluzione del concetto di cooperazione, laddove l’attenzione alla sostanza (qualità della vita, essere) prima e più che alla grandezza (quantità, avere) risponde a criteri di una fondamentale scelta strategica. Abbiamo visto enormi baracconi della solidarietà e dello sviluppo finire per ingrassare solo se stessi e sviluppare altra miseria! Piccoli, tanti, solidali, in rete: non è stato sempre così che, nella storia, si è più efficacemente potuto sviluppare resistenza, non solo al sistema dominante, ma soprattutto alle sue invadenti culture?
È importante quindi che ogni esperienza di cooperazione preservi e valorizzi la sua unicità, l’originalità del suo percorso ma, al tempo stesso, non dovrà scordare di essere parte di un’universale rete di solidarietà che si va realizzando. A questo proposito Vandana Shiva dice: “Ogni luogo, ogni persona, ogni essere vivente, costituisce il centro del mondo, l’origine e la meta di cerchi concentrici di compassione e amore che si estendono verso l’infinito”.
La partecipazione attiva
In una visione ideale di rifondazione del concetto di ONG (già al terzo paragrafo faccio fatica a utilizzare questo acronimo) la partecipazione attiva di ogni suo membro, attivista o sostenitore, prima ancora di essere funzionale al suo aspetto organizzativo, crediamo debba essere portatrice in sé di elementi di trasformazione. “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”: così Gandhi insegnava che i processi di trasformazione di ognuno sono uno strumento indispensabile per creare nella società le basi per un reale cambiamento verso un modello di vita sociale basato sulla condivisione delle risorse del pianeta così come delle nostre stesse vite. Se non si è, se stessi, interpreti delle idee che si vogliono propagare non solo si rischia di essere inefficaci, ma di deludere se stessi e gli altri, erodendo credibilità a quelle idee. Qui entriamo in un campo soggettivo, delicato e difficilmente opinabile, che è la propria coscienza: creare consapevolmente attivi legami associativi è forse l’unico valido antidoto al pericolo dell’autoreferezialità.
In una prospettiva di evoluzione del concetto di cooperazione, la personale partecipazione a una ONG e la partecipazione di questa a un progetto di cooperazione richiede che si siano avviati propri percorsi di studio e di esperienza per un modo più naturale di vivere e che questi vengano riuniti all’impegno al servizio, offrendo agli altri i frutti della propria ricerca, scambiando e condividendo esperienze e proponendo attività che producano autonomia, capacità di gestione, volontà e strumenti di azione comune.
Vedere con i propri occhi e toccare con le proprie mani le situazioni nelle quali si vuole portare il proprio intervento è un “must”, ovvio, ma nella realtà, purtroppo, non sempre scontato. Di progetti creati al computer per soggetti mai conosciuti, in posti mai visitati, nel contesto di culture completamente ignorate, ne è purtroppo pieno il mondo della “cooperazione”. Questo non vuol dire che tutti i partecipanti a una ONG debbano spostarsi là dove questa decide di portare il proprio progetto di cooperazione, ma debbono sicuramente farsi carico di stabilire contatti diretti con quella realtà, perché ci si renda più consapevoli della condizione di coloro con i quali si vuole cooperare, delle loro reali necessità. In questo modo si potranno anche conoscere le risorse di cui sono in possesso e che possono arricchire (non in senso materiale) gli stessi cooperanti e il loro background. Cooperare, infatti, deve essere per un miglioramento reciproco, altrimenti è solo un gesto di elemosina mascherato: caritatevole, certo, ma incapace di generare una vera trasformazione dello stato delle cose.
Partecipare attivamente alla cooperazione, quindi, si può farlo anche attraverso il cambiamento dei propri stili di vita, consumando in modo consapevole e include la scelta di donare tempo, azioni, denaro, per la realizzazione di progetti di solidarietà. Quel che riteniamo sia importante è, ancor una volta, la volontà e la capacità di mettere in rete tutte queste scelte e non rischiare, nel ridefinire la cooperazione, di generare ancora nuove separazioni fra figure specializzate (i teorici, i tecnici, i burocrati della cooperazione), i simpatizzanti (“vorrei, ma non posso”), i beneficiari (visti solo come “target” e non come partecipi al processo di trasformazione).
La meta dello sviluppo
Crediamo che nella riscrittura dell’alfabeto della cooperazione occorra senza più indugi mettere la “critica dello sviluppo” al centro del dibattito e delle esperienze di nuovi (?) modelli vita quotidiana. Non si può più associare alla parola “sviluppo” il mero concetto di “produzione”, e cioè la capacità di operare una crescita quantitativa. Pensiamo che sia giunto il tempo di affermare che sul concetto di “sviluppo” debba finalmente regnare il primato dei rapporti umani e quello della conoscenza e del rispetto per le manifestazioni naturali del nostro pianeta, così come la capacità condivisa di realizzare qualcosa che sia armonioso, frutto delle energie dell’insieme. Per questo l’azione della cooperazione, prima e al di sopra di ogni preoccupazione di crescita economica, deve aspirare a stabilire nella comunità modelli di vita più giusti ed equilibrati, e questo, specialmente da noi, significa pensare senza più timori a consapevoli percorsi di “decrescita”.
A noi del “Nord del mondo”, che vogliamo cooperare per lo sviluppo, ben si adatta il compito che potrebbe ispirarsi all’affermazione di H.D. Thoreau di due secoli fa: “Ciascuno di noi è ricco in proporzione al numero delle cose di cui può fare a meno”.
Pensiamo che i progetti delle ONG dovranno tenere sempre in considerazione le diverse dimensioni della vita di ognuno, quella fisica, mentale e spirituale, ma anche la connessione profonda fra l’individuo e la sua comunità, così come la naturale simbiosi fra la comunità e l’ambiente dove questa vive e si sviluppa. I loro interventi “per lo sviluppo” dovranno avere lo stesso rispetto per gli esseri umani e per gli altri esseri viventi e il loro habitat, non devono produrre stati di dipendenza, ma generare atteggiamenti responsabili e far crescere persone e gruppi capaci di pensare, creare, discutere, decidere e realizzare le proprie idee.
Nel mondo c’è fame, non mancanza di cibo! Di fronte a questo insensato e pericoloso squilibrio nel mondo, dove una piccola parte della popolazione consuma la maggior parte delle risorse del pianeta e la maggioranza ne rimane esclusa e soffre di una povertà estrema, è altrettanto insensato pensare di cooperare allo sviluppo produttivo prima ancora di pensare a ristabilire equilibri e giustizia. Per questo crediamo che, al di là dei doverosi interventi di emergenza, i progetti che affermino e diffondano un atteggiamento consapevole di condivisione del Bene Comune siano strategicamente i più importanti nel cammino verso un modo più naturale di vivere nella società umana. Condividere risorse, capacità, conoscenza e sostegno: questo è il fondamento di una vera comunità umana; non è “roba da ONG” è cultura evolutiva appannaggio di tutti, che le azioni di cooperazione farebbero meglio ad assumere come un comandamento.
Senza un diffuso comportamento di condivisione nessuno e nessuna società può sperare di maturare alcun frutto di crescita e di sviluppo. Il compito a cui la cooperazione oggi dovrebbe guardare è quello di diffondere una più ampia e profonda consapevolezza fra le persone e dare vita a una nuova e possibile visione del mondo, dove valori come armonia, verità, amore e pace, siano i fondamenti di un autentico processo di evoluzione, edificato sulla saggezza che si manifesta ogni qual volta un essere umano sceglie di condividere il suo bene con un altro essere umano.
L’azione cooperativa
Molte ONG come la nostra sono nate da un evento: un’esperienza toccante, una relazione, un viaggio, una richiesta. Sono partite, cioè dall’aver incontrato un problema reale, magari circoscritto e parziale, ma reale. Ma il gesto cooperativo ha preso forma da un’esigenza altrettanto reale, che è propria di chi lo compie: come dicevamo prima, un impulso morale, una convinzione logica della necessità della condivisione del Bene Comune. Questa, sebbene sia materia soggettiva, non raramente si trasferisce in un sentire comune e si trasforma poi, con un impegno di volontà, in un agire comune. Più difficilmente, però, riesce a mantenere la purezza da cui è nata quando inevitabilmente si riporta su una scala più grande di azione.
Nel decidere i campi d’intervento dell’azione cooperativa, prima ancora di utilizzare analisi complesse, ha trovato spesso una chiave semplice, anche se non facile: l’osservazione e l’ascolto. Prima ancora di voler dire a qualcun altro di cosa ha bisogno, occorrerà che ce lo facciamo dire. Non bisogna calare idee dall’alto: occorre ascoltare, studiare insieme a chi manifesta il bisogno, stando attenti a non far prevalere la cultura di chi offre i mezzi materiali su quella di coloro a cui l’offerta viene diretta.
Con grande rispetto verso le eredità culturali e le tradizioni locali, l’azione cooperativa deve rivolgere la sua attenzione soprattutto all’educazione e alla formazione delle persone, stando attenti allo sviluppo delle capacità umane prima ancora che dell’incremento degli strumenti tecnologici, prediligendo le risorse locali piuttosto che quelle esterne o estranee alle comunità dei primi beneficiari, che sono così coinvolte nei processi d’ideazione, ricerca, valutazione, decisione e realizzazione dei progetti.
L’azione cooperativa deve essere libera da condizionamenti governativi e da ragioni politiche; deve invece rispondere solo all’ideale che l’ha partorita, e cioè quello di una società che si fonda sulla condivisione del Bene Comune. Agire liberi da tali condizionamenti non significa essere anti-governativi o apolitici: anzi, sarà la stessa forza espressa dal movimento cooperativo a condizionare la realtà con una nuova visione politica. Siamo ovviamente contenti quando la cooperazione muove forze istituzionali in una più giusta direzione, ma ricordiamo che le loro finalità sono con tutta probabilità diverse. La nostra ONG realizza i suoi progetti soprattutto grazie a una rete di sostenitori, donazioni private e organismi indipendenti. Abbiamo accettato fondi pubblici solo quando questi corrispondevano a ciò che già avevamo deciso di fare. Non crediamo che di questa scelta bisogna farne una religione, crediamo però che la rifondazione dell’azione cooperativa non debba mai essere subordinata a scelte di convenienza, che potrebbero snaturarne il carattere.
Nel movimento cooperativo molti agiscono a titolo gratuito, mettendo a disposizione risorse, capacità e competenze; altri lo fanno accontentandosi di poco; altri ancora ne ricavano un compenso equo. Tutti, però, dovranno accettare il primato del giusto agire sul proprio interesse privato, pena una contraddizione inconciliabile fra le modalità con cui un’azione viene svolta e le finalità che vuole raggiungere.