IL MANIFESTO intervista Alfredo D’Angelo, fondatore e presidente di Share
scarica l’articolo in formato PDF
Promuovere la condivisione delle risorse del Pianeta, valorizzare capacità e conoscenze, battersi per la giustizia e la pace, in ogni posto del mondo, in nome del Bene Comune. Sono questi i principi ai quali si ispira Share – Human Life Project (www.sharehlp.org) Onlus, laica e indipendente, nata nel 2001 a Roma che attraverso i suoi progetti di sostegno, vuole diffondere una più ampia consapevolezza tra le persone e dare vita a una nuova visione del mondo. Oggi l’associazione è attiva in quattro difficili Paesi: Marocco, Cambogia, Myanmar e Rwanda con progetti (dall’istruzione al sostegno alla salute) e iniziative mirate a sviluppare le capacità umane dei loro abitanti, attraverso attività che possano promuovere l’autonomia, aumentare le capacità di gestione e gli strumenti di azione comune. Per saperne di più abbiamo incontrato il presidente Alfredo D’Angelo, a Yangon in occasione del viaggio-studio organizzato tra luglio e agosto 2012.
Perché Share ha deciso di lavorare con i ragazzi sordi del Myanmar?
Share ha cominciato a lavorare in questo Paese nel 2001, in controtendenza rispetto all’opinione comune dell’epoca secondo cui sarebbe stato meglio non andare in Birmania per isolare ancora di più il suo regime. Abbiamo focalizzato i nostri interessi sui bisogni della gente, mantenendoci lontani il più possibile da circuiti istituzionali e governativi. Il fatto di essere una piccola associazione indipendente ci ha facilitato le cose e ci ha reso possibile lavorare direttamente con le persone. Lo shiatsu è da sempre una delle nostre competenze e abbiamo deciso di condividerla in questo progetto che però non è l’unico che abbiamo portato avanti nel Paese. Non si tratta solo di una competenza tecnica, ma di una capacità che mette in contatto con un’altra visione del mondo e quindi rientra a pieno nell’ottica della condivisione. Altrettanto per caso siamo arrivati alla “Mary Chapman” una scuola non governativa che avevo visitato anni fa: ho capito che ci poteva essere una collaborazione e ho deciso di provare. E qui, lavorando con i non udenti ci si è aperto un mondo e l’intuizione iniziale si è tradotta in un incontro straordinario con questi ragazzi.
Per i ragazzi di Balance cosa rappresenta lo shiatsu?
Prima di tutto ha rappresentato il contatto con un mondo non solo di udenti ma anche di persone (noi) che venivano da un’altra cultura, dal mondo occidentale e quindi una scoperta da questo punto di vista. Più nello specifico per alcuni di loro sta rappresentando quello che lo shiatsu è: una strada di scoperta di sé e per altri ancora un modo di emancipazione. Perché da ragazzi con handicap, sostenuti da donatori, spesso di peso per i loro genitori e a volte emarginati dalle loro stesse famiglie sono diventati terapisti, a cui si rivolgono più di 300 persone ogni mese per farsi fare i trattamenti e curare i loro malesseri. Questo significa un’autonomia finanziaria, un lavoro con cui sostenersi, senza però aver dovuto rinunciare a quella che è la loro forza: progredire insieme in comunità. Finchè possono stare in gruppo hanno una socialità che altrimenti non avrebbero e allo stesso tempo la possibilità di confrontarsi con gli altri. Del resto è proprio questa la strada dell’integrazione: non mettere il non udente nel mondo degli udenti con l’apparecchio all’orecchio, ma integrare la cultura sorda con la cultura dei normodotati.
Come si spiega l’ottimo risultato di questo progetto?
L’atmosfera di armonia e di pace che si respira al Centro Balance influisce non poco al suo successo e al fatto straordinario che ogni anno centinaia di persone lo frequentino, cercando e ottenendo risposte concrete alle loro condizioni di disagio. La buona riuscita di questo progetto non sta quindi solo nella formazione di un gruppo di ragazzi non udenti e nella loro emancipazione sociale ed economica, ma anche e soprattutto nel fatto che questo gruppo non ha soltanto beneficiato di un sostegno, ma ha anche sviluppato qualità del tutto proprie, in grado di sostenere tante altre persone e di aprire loro “finestre” per una nuova e più equilibrata visione della vita.
In un’altra città del Myanmar, Mandalay, Share ha avviato un progetto analogo. Ci racconta di cosa si tratta e quali sono gli obiettivi?
A Mandalay c’è tutta un’altra situazione: siamo agli inizi, in una scuola (School for the Deaf )che è governativa (sostenuta dal Ministero del Welfare con in più alcune donazioni di associazioni e Paesi stranieri) e che due anni fa, visti i risultati ottenuti qui a Yangon ci chiesto di portare anche lì il progetto dello shiatsu. Ma al momento, non ci sono le condizioni per sviluppare un centro come Balance. Per diversi motivi, Ma soprattutto perché i ragazzi di Mandalay non hanno la possibilità di dare vita a un gruppo che diventi gradualmente autonomo e quindi la loro fantasia e volontà faticano a trovare scintille per accendersi. Per questo credo sia un progetto da ripensare insieme al nostro referente in Myanmar Than Oo e agli stessi giovani di Balance che si sono occupati in questi anni della loro formazione.
In termini economici qual è il sostegno di Share a questi due progetti?
Pochissimo, a riprova di una cosa che dico spesso e cioè che da queste parti bastano davvero pochi soldi per dare una mano. Lo staff di Share è formato solo da volontari il che significa che non c’è un budget, per esempio per i nostri gli insegnanti di shiatsu che vanno in missione. A volte rimborsiamo loro le spese di viaggio, ma neanche sempre. Abbiamo fatto in questi anni spese una tantum come la ristrutturazione del centro e diamo un contributo di 50 euro al mese (il doppio del suo normale stipendio scolastico) a Nwe Ni, l’insegnante che segue i ragazzi e 250 a Tan Oo, il nostro referente e projct manager. E oggi i ragazzi si sostengono da soli con il loro lavoro.
Quali saranno le prospettive e il futuro di Balance?
Proprio in questi giorni abbiamo individuato come prossimo obiettivo da raggiungere l’apertura di un centro culturale Balance, qui a Yangon, probabilmente già dal 2013. Un luogo indipendente e autosufficiente, gestito dagli stessi ragazzi sordi riuniti in una specie di cooperativa, dove saranno praticati lo shiatsu e lo yoga, ma ci potrà esser spazio anche per l’arte, l’artigianato, la cucina, e anche un approccio alla cultura della comunicazione non verbale dei non udenti. Del resto, quello di un Centro culturale, capace di condividere e salvaguardare saperi preziosi, sviluppandoli in una prospettiva solidale, è proprio il modello che Share sta promuovendo anche in altri Paesi dove operiamo, ovviamente nel rispetto della storia e delle caratteristiche locali. È improntato alla stessa visione, per esempio, il Centro “Tubasange” a Kigali, in Rwanda e a queste stesse finalità aspira il Centro culturale nomade di prossima apertura a Boujhab, nel Sahara marocchino. E in questa direzione si muove e produce cultura anche il Centro “Il Fiume”(www.centroilfiume.it) a Roma, che da più di 25 anni lavora a fianco della nostra associazione.
Lei viaggia in questo paese da più di dieci anni. Che idea si è fatto del Myanmar?
La sorpresa quando sono arrivato (conoscevo già Cambogia, Thailandia) è stato quello di trovare un Paese che dal punto di vista di un progressista sembrava povero e arretrato e da quello di un antropologo o di un etnologo un laboratorio molto interessante, perché qui si trovano ancora tradizioni che nel resto dell’Indocina sono scomparse, dissipate. E quindi all’inizio mi ha colpito proprio per questa sua ancora fortissima autenticità: mi sembrava di stare in un film di un secolo fa. Ho fatto fatica a capirci qualcosa perché valutavo il Myanmar con i nostri parametri politici, occidentali: per cui i cattivi dovevano essere i generali e i buoni la guerriglia indipendentista. In realtà mi sono dovuto ricredere: non sulla ferocia dei primi, ma sulla “bontà” dei secondi perchè le spinte autonomistiche più che in favore della giustizia sociale mi sono sembrate motivate dalla volontà di controllo delle immense ricchezze del Myanmar, foreste, risorse minerarie, oppio (con coltivazioni importantissime per il traffico mondiale), petrolio. Per noi la democrazia è un’insieme di cose che non sono né scambiabili né rinunciabili ed è chiaro che, nonostante qualche recente apertura, qui ancora non ci sono. D’altra parte ho visto da vicino il fallimento di Paesi come Cambogia e Thailandia, apparentemente oggi “democratici”. Ma i parametri di valutazione sono sempre più complessi e questo Paese mi ha insegnato a leggere la realtà sociale con molta più umiltà.
E come valuta il cambiamento in atto, anche dal punto di vista politico?
Io credo che la politica buona sia, qui come altrove, quella della gestione comune degli interessi comuni. A partire dalle piccole comunità. Il problema, in Occidente, è che le piccole comunità sono state distrutte. Se ci può essere un’alternativa alla dittatura del mercato e della politica è quella di potersi sentire ancora appartenenti a una piccola comunità. Un po’ quello che dice Vandana Shiva, la scienziata e ambientalista indiana: “ogni luogo, ogni persona, ogni essere vivente, possa costituire il centro del mondo, l’origine e la meta di cerchi concentrici di compassione e amore che si estendono verso l’infinito”. Una rete di interessi, di culture, di scambi ricchi e proficui. Questa è l’unica realtà che riesco a vedere e che cerco di portare avanti anche con Share in questo Paese e in altri. Credo che qui i cambiamenti avverrano nel solco che tutti ci aspettiamo: questo Paese è appetibile perché è un mercato non sfruttato, di conseguenza aumenteranno le distanze tra ricchi e poveri, come già sta succedendo. Fino a qualche anno fa c’erano pochissimi ricchi e moltissimi poveri, ora un po’ più di ricchi mentre i poveri sono più poveri ancora. Credo non ci sia scampo: l’unica alternativa è che nel frattempo si cominci a seminare qualcosa di diverso, perché noi occidentali sappiamo benissimo che il modello di vita che qui sta arrivando, cioè il nostro, è insostenibile. Quello che mi auguro è che qui come in altri Paesi del mondo i semi buoni della cultura non muoiano. E ciò che anch’io nel mio piccolo, insieme ad altri cerco di fare è costruire degli orticelli intorno a questi buoni semi, che possano un giorno essere scambiabili. È un cambiamento di prospettive che richiederà molto tempo, più di quello di una generazione, ma è davvero l’unica strada che abbiamo.